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Il castello a noi serviva, intanto per le prime sigarette, noi le andavamo a fumare… ci stava la loggia grossa e la piccola, no?
Perché era dirupato il castello… la loggia piccola era più a portata di mano di noi ragazzini… allora si compravano tre sigarette, c’era il “Sali e Tabacchi”… si vendevano sfuse insomma, no? Allora ci stava l’”Indigeno”, le “Moresche”, insomma, no? Ci si arrampicava sulla loggia piccola e si andava a fumare lì dentro… ma c’era un rapporto stretto con il castello perché se facevano le sfide.
Ci stava uno di Ausonia, Angiolino, te ricordi? Quello si arrampicava…io non so… quando ci penso mi si rizzano i capelli in testa! Si arrampicava fino a sopra! S’arrampicava fino a sopra là, a pigliare i nidi insomma, no? Che se cadeva da lì, quello era… si disintegrava!… era un tipo un po’ così… estroso, s’arrampicava andava a prendere i nidi di… perché là erano parecchi sparvieri, i gufi là sopra, e andava a prendere i nidi là sopra, il castello, no?
E poi lì si andava… diciamo pure la verità insomma no?… si andava pure a defecare, insomma… poi il gabinetto non stava in tutte le case.
(Guido)
Qualche anno fa, erano gli anni ’50, sui cumuli delle macerie sgomberate nel centro storico e portate a discarica nel Castello un gruppo di bambini, Mario, Tonino, Mario, Raffaele, Tonino e Franco, giocavano alla guerra, si arrampicavano sui muri del castello nascosti dalla vegetazione che con radici e rami si insinuava tra le pietre e diveniva sempre più folta e dirompente.
Le loro case, il castello e tutto Sant’Angelo, nei giorni di vento erano avvolti dai mulinelli di polvere che le folate sollevavano dalle macerie. Forse fu proprio in un giorno più ventoso del solito che stabilirono un patto e fecero un giuramento: “Quando saremo grandi ricostruiremo glio castéglio […] La svolta avvenne a partire dal 1990; possiamo dire che iniziò la cura di un male, la perdita di interesse dei cittadini verso la loro storia.
I restauri iniziarono nel 1992, si aprì il primo cantiere, nacque un’idea semplice e nello stesso tempo avvincente: quell’ammasso di ruderi, glio casteglio, poteva essere il luogo naturale del “Museo della Pietra”.
(Mario Thomas, La scoperta di un territorio, Carsa Edizioni, Pescara).
Li padroni stavano alla città, i contadini, poveracci, stavano qua e coltivavano tutta ‘sta terra, il bestiame e quello e quell’altro. Allora, per distinguere, se diceva andiamo a glio casino degli Passamonti, che era questo qua.
Poi più in là ce ne n’era un altro, sempre dello stesso padrone… un padrone solo con tante masserie… quando si faceva la raccolta del grano, di tutta ‘sta campagna, si portava qui e si batteva a mano. Si stendeva, il sole lo seccava bene e poi si batteva e si ricavava il grano, la paglia da una parte e il grano dall’altra.
(Gerarado)
Quando si inizia a salire il pendio verso Selvacava si notano costruzioni differenti. Alcune caselle in pietra a secco, delle volte dotate di recinto per le bestie e di forno, erano utilizzate dai coloni come ricovero temporaneo. Altre più grandi, in muratura a due piani con scala esterna, sono chiamate “casini” o piccoli casali. Essi sono realizzati dal proprietario del fondo per sé o per il colono.
La piccola proprietà si è diffusa lentamente, nel corso del Novecento, e allo stesso modo sono cambiati i contratti agrari, soprattutto negli ultimi decenni, quando con l’emigrazione e l’industrializzazione della zona sono cambiate le condizioni sociali ed economiche della zona.
Anche qua se usavano le caselle “a crapareccia”… una falda sola. Una pendenza sola. E che scorre giù. Poi c’era la paglia di grano, e ci stavano tante varietà di grano, poi ci sta la paglia di segala, la paglia di… insomma un’altra paglia che è molto più dura di quella del grano, che resiste a mettere in pendenza, no?
Allora, questa qui si chiama crapareccia, questa qua si chiama spiga… le mandrie di bestie erano coperte di quella maniera. Tutto fatto in legno, lungo e traverso, la paglia sopra, per coprire. E poi c’è la falda che si metteva a rotondo, a tipo mèta de paglia, noi diciamo la mèta de paglia.
(Gerardo)
Il tetto è appoggiato sopra i bordi. Solo alla macèra, dicemo in dialetto, e allora i pali viene quasi al centro di questo lavoro qua: facendo ‘sto muro doppio, ‘sto muro a secco doppio, se fa in modo che i pali viene messi che l’acqua scola al centro di queste macere e se ne va giù alla fondazione, così che non va dentro, capisci?
E poi se se po’ pratica’ meglio essendo largo coi piedi, facendo oppure ristrutturando ‘sta tettoia, attorno a ‘sta paglia, cucendo, uno sta dentro, uno sta fori… si rifà di nuovo tutto intorno fino alla cupola, va a fini’ così dopo. Però si fa prima una gabbia di pali e pertiche, dicemo noi in dialetto. (Fernando).
In diversi punti della dorsale Aurunci-Ausoni-Lepini sopravvivono alcuni tipi di ricoveri con antichissime tecniche costruttive. Il “pagliaro” è costruito in pietra a secco, coperto con un’orditura di legname e fasci di una pianta graminacea (Ampelodesmos mauritanicus) qui nota come stràmma.
Al Monte Fàmmera… fra noi pastori ci incontravamo là, ‘n coppa. E andavamo. Io andavo con le vacche, fra poco arrivavamo a Itri con le vacche… sopra era tutto abitato, tutto popolato, stavano famiglie intere, lavoravano la terra. C’avevano le bestie. Chi c’aveva solo la terra, lavorava la terra o chi pure stava solo con le bestie.
Però le famiglie stavano a Selvacava. Sopra i punti coltivabili sono limitati. Quindi, chi c’aveva il terreno con… senza pietre, adatto alla coltivazione, coltivava il grano e tutti i cereali, le patate. Chi invece aveva il terreno nelle zone solo montuose, faceva solo l’allevamento, non era un trasferimento proprio di tutta la famiglia in blocco… mah, per esempio parlando su di me, c’era mio nonno con le vacche, poi c’era qualche figlio.
C’era mio padre… e uno o due della famiglia, si trasferivano, il periodo estivo, cioè dalla primavera all’autunno su. Poi, quando era il mese di settembre, settembre ottobre, il periodo che si doveva fa’ la semina, si seminava la montagna e poi, con le bestie, un’altra volta se veniva giù.
(Mario e Anna)
… Se cominci alla montagna… la terra, quella che si trova sul posto si manda giù, intanto a questo terrazzo. Facciamo il posto per fare ‘sta macèra e dentro la macèra rimane la trincea, rimane un vuoto. Che poi, riempiendo a quel vuoto, ti trovi il vuoto fatto all’altra macèra.
Volendo rinnovare una montagna, cominci sotto, e a una a una ti trovi subito fatta una fondazione per l’altra… e le pietre che escono, in mezzo ‘sta terra, quelle grandi le spacchi, quelle piccole le metti da parte, vengono usate per fare l’altra macèra. E si trova, ci troviamo un altro terrazzo… che poi sopra qui tra la terra e la macèra, rimaneva una trincea vuota, che poi ci mettevano le piante d’olive, de fico, a quei tempi mettevano sempre olive e fico.
(Gerardo)
La pietra deve dormire: la pietra che sta nella macèra non ha movimento. Quindi deve dormir. Così dicevano i maceratori. In sostanza, lì tutta la forza sta nell’appoggio delle pietre l’una con l’altra da non dare movimento. Nel momento in cui si muove una, addio. Poi diventa una catena.
(Giuseppe)
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